La Cattedrale di Venafro e Pietro di Ravenna, monaco desideriano.
Un bassorilievo di epoca normanna ed alcuni portali di difficile interpretazione
estratto da Franco Valente, La Cattedrale di Venafro, Storia, arte e architettura (in preparazione)
(Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons)
A Pietro di Ravenna, monaco benedettino di Montecassino, divenuto vescovo di Venafro nel 1059 (secondo Leone Ostiense e Pietro Diacono) o nel 1060 (secondo Ludovico Antonio Muratori), certamente si deve la totale rivoluzione dell’impianto basilicale della Cattedrale venafrana.
Pietro di Ravenna era stato consacrato monaco in una cerimonia solenne tenutasi in Acerra alla presenza di papa Nicola I e successivamente era divenuto priore del monastero di S. Pietro Avellana. Si trova tra i presenti alla consacrazione della basilica di S. Maria a Calvi nel 1064.
Per comprendere l’importanza di questo vescovo si deve necessariamente far riferimento al contesto in cui si pone la opera che egli intraprese nel territorio venafrano ed in quello isernino, che allora erano amministrativamente riuniti in una unica diocesi.
Pur se il suo nome tradisce una origine ravennate che, come vedremo, influì anche sulla esecuzione della sua immagine posta sul campanile della basilica venafrana, la sua formazione spirituale avvenne all’interno del monastero di Montecassino in un momento in cui nel cenobio benedettino erano presenti personaggi che calpestarono la scena internazionale per le loro indiscusse personalità. Primo fra tutti Desiderio che poi divenne papa con il nome di Vittore III.
Desiderio proveniva dalla famiglia dei conti dei Marsi ed era nato a Benevento. Monaco nel monastero di S. Sofia di Benevento ed in quello di S. Maria a Mare nell’isola di S. Nicola nelle Tremiti, fu amico di Leone IX e di Vittore II, con il quale stette a Firenze nel 1056.
Passato nel monastero cassinense, venne eletto abate nel 1058, alla immediata vigilia del definitivo tramonto dell’organizzazione politica della Longobardia Minore ed alla consolidata ascesa al potere dei Normanni, dei quali, durante il suo abbaziato fu amico.
Fu di grande aiuto ad Ildebrando di Soana, divenuto Gregorio VII, nei difficili rapporti con Enrico IV. Fu pure sostenitore di Riccardo I Drengot, conte di Aversa, cha aiutò nella conquista di tutta l’antica Terra di Lavoro, del ducato di Gaeta e della contea di Aquino, ottenendo non pochi benefici per il monastero che si arricchì di nuove terre e donazioni.
Ma, a parte i suoi impegni fuori delle mura del monastero, Desiderio dette una svolta decisiva all’interno della sua comunità non solo con una sistematica azione di riorganizzazione della disciplina monastica, ma anche con una programmazione architettonica ed urbanistica che, alla luce dei risultati raggiunti in tutto il territorio circostante, non poteva maturare se non in un contesto di grande attività collettiva della quale egli fu il perno. Attorno all’abate Desiderio fiorirono straordinarie personalità della cultura: gli storici Amato di Montecassino e Leone Marsicano, il poeta-arcivescovo di Salerno Alfano, il fisico ed erudito enciclopedista Costantino Africano con i suoi allievi Attone e Giovanni, l’esperto di retorica Alberico, l’astronomo Pandolfo di Capua, lo scienziato Lorenzo di Amalfi. Grazie all’impulso dato alle attività dello scriptorium di Montecassino in questo periodo si trascrissero, e perciò si conoscono oggi, importanti testi della letteratura classica come l’ultima parte degli Annali e delle Storie di Tacito, l’Asino d’oro di Apuleio, i Dialoghi di Seneca, il De lingua latina di Varrone, il De aquae ductibus di Frontino.
Dell’epoca di Desiderio abbiamo una straordinaria documentazione di opere che non solo ci permettono di chiarire con una discreta approssimazione quali fossero le problematiche che affrontava la Chiesa per dare risposta concreta a quei problemi di natura teologica che venivano posti soprattutto dalla fazione simoniaca, ma anche per capire in che termini tale risposta veniva data. E’ vero che Desiderio si pose contemporaneamente l’obiettivo di una rigida applicazione della Regula Benedicti e quello di una revisione degli atteggiamenti politici in funzione del pratico raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma è altrettanto vero che fu realisticamente l’attore ed il programmatore di una strategia che potremmo definire globale per il fatto di interessare ogni aspetto del contesto religioso come di quello, apparentemente esterno, civile.
Per questo le sue iniziative non si limitarono solo ad una riorganizzazione del sistema monastico ed alla intensificazione del coordinamento di tutte le abbazie che comunque avevano nella regola benedettina un punto sicuro di riferimento, ma tentò, riuscendovi abilmente, di trasferire anche nella organizzazione secolare della Chiesa quei principi che all’interno del monastero erano positivamente sperimentati.
In altri termini se il monastero, ed in particolare Montecassino, doveva in qualche modo essere la ripetizione della Gerusalemme terrena ove si attende il ricongiungimento con la Gerusalemme Celeste e se Montecassino, addirittura, doveva essere anche il nuovo Sinai, cioè il luogo dove Dio incontra l’uomo per consegnargli le Leggi, ugualmente gli agglomerati civili dovevano, ad imitazione del monastero, per quanto possibile, costituire altrettanti luoghi capaci di ripetere la Gerusalemme terrena.
Che si tratti di una vera e propria strategia che, parallelamente alla espansione del governo normanno, si estende in tutti i luoghi che in qualunque modo sono controllabili da Montecassino si legge proprio dalla descrizione della cerimonia, avvenuta nel 1071, della inaugurazione della nuova basilica di Montecassino di cui Desiderio non solo fu il promotore e il committente, ma della quale egli fu pure, nel senso letterale, l’architetto.
E per capire quale sia stata la logica progettuale, che diventerà il motivo conduttore di tutte le basiliche, monastiche o cattedrali, che verranno realizzate in quel periodo o negli anni immediatamente successivi, dobbiamo fare riferimento alla problematica liturgica che viene vissuta in maniera certamente innovativa dalla comunità desideriana. Ultimamente il problema è stato affrontato in maniera esaustiva da Mariano Dell’Omo che ha posto l’attenzione sulla questione analizzando la ricca produzione di Exultet, messali plenari e codici liturgici di quell’epoca che permettono oggi di studiare con puntualità il rapporto tra architettura religiosa e azione liturgica e di capire come le due cose siano profondamente legate tra loro.
A tal proposito appare chiaro che è impossibile comprendere la spazialità e la funzionalità di un edificio religioso così importante come una basilica, se non si tiene conto del contesto fisico esterno in cui tale basilica si colloca.
Un contesto che non possiamo non definire urbanistico quando osserviamo che tutta l’azione liturgica si richiama costantemente alla Città cristiana per eccellenza che è la Gerusalemme terrena e che, comunque si voglia immaginare, è il modello di riferimento sia che si tratti di una cittadella monastica, come poteva essere Montecassino o qualsiasi altro monastero, sia che si tratti di un nucleo civile, come poteva essere un qualsiasi altro nucleo civico.
La descrizione delle cerimonie liturgiche e la definizione quasi ossessiva delle modalità esecutive di tali cerimonie sono la dimostrazione tangibile dell’importanza simbolica che veniva assegnata ad ogni luogo della Gerusalemme terrena (che rappresentava una sostanziale ripetizione dell’originale) e che vedeva nella basilica il luogo più significativo ed il riferimento fisico conclusivo di un itinerario stazionario che nei fatti ripeteva i luoghi della Gerusalemme originaria.
L’abside, e perciò l’altare centrale, rappresentava simbolicamente il luogo più elevato della terra, dove Dio si mostra all’uomo incarnandosi in Cristo (Gerusalemme) o, ancora prima, consegnando le leggi a Mosè (Sinai).
Lo dimostra il fatto che Desiderio aveva voluto esaltare tale ruolo anche sul piano esplicitamente didascalico affidandosi al suo amico e poeta Alfano, arcivescovo di Salerno, al quale fu dato il compito di scrivere i versi che, secondo la Cronaca, campeggiavano nell’abside centrale:
HEC DOMUS EST SIMILIS SYNAI SACRA IURA FERENTIS,
UT LEX DEMONSTRAT, HIC QUE FUIT EDITA QUONDAM.
LEX HINC EXIVIT, MENTES QUE DUCIT AB IMIS,
ET VULGATA DEDIT LUMEN PER CLYMATA SECLI.
Ed è così che Desiderio, pur recuperando formalmente la spazialità sferica del catino absidale dalla tradizione costantiniana e carolingia, riprende il tema biblico della tenda cosmica e della volta celeste dominata dall’immagine dell’Altissimo sotto la quale la terra sprofonda nel buio delle tenebre che coincidono con la sepoltura del santo titolare della basilica le cui membra sono in attesa del giudizio finale per il ricongiungimento con l’anima.
Attorno alla sepoltura del santo, che garantirà a tutta la comunità monastica la discesa della Gerusalemme celeste anche in quel punto particolare, si sviluppa il monastero che non accoglie solo i vivi, ma anche e soprattutto i defunti, verso i quali è costantemente rivolto il culto dei monaci.
In epoca desideriana i suffragia sanctorum sono una costante della liturgia cassinese e vengono celebrati anche con uffici supplementari dal lunedì dopo l’ottava fino alla domenica di Pentecoste. Per tutto questo tempo i monaci, dopo i Notturni, recitato l’Ufficio dei defunti, cantavano le lodi, seguite dall’Ufficio di tutti i Santi e dalla Messa pro defunctis dopo l’ora di Prima.
L’intensa attività di Desiderio portò Montecassino a diventare un avamposto della liturgia romana nell’Italia meridionale e la cerimonia di inaugurazione della nuova basilica nel 1071 ne è la prova più tangibile.
Nel 1085 Gregorio VII morente indicò Desiderio tra i suoi successori e dopo la morte del papa la sua esperienza ed il suo prestigio furono determinanti perché si raccogliessero attorno a lui i consensi dei cardinali. Trascorse oltre un anno senza che si prendesse una decisione e solo le pressioni di Giordano, principe di Capua, della contessa Matilde e di tutto il clero lo costrinsero, suo malgrado, ad accettare di essere proclamato papa con il nome di Vittore III.
Partendo dalla descrizione che Leone Ostiense (Codice Cassinese 47) fece della cerimonia inaugurale della basilica desideriana a Montecassino (1 ottobre 1071) e seguendo l’elenco dei personaggi più importanti che vi parteciparono, possiamo tentare di ritrovare nella regione molisana le tracce di quelle architetture religiose che in qualunque modo si adeguarono alla linea programmatica indicata da Desiderio. Erano presenti Pietro di Ravenna vescovo di Venafro ed Isernia, Alberto vescovo di Boiano, Nicola vescovo di Termoli, Guglielmo vescovo di Larino e migliaia di monaci con i loro abati. Sicuramente vi era anche Giovanni V, abate di S. Vincenzo al Volturno, diretto rappresentante di Montecassino in quel territorio.
Dunque Pietro di Ravenna era stato eletto vescovo di Venafro mentre a Montecassino l’abate Desiderio dava un impulso concreto ad una vera e propria restaurazione architettonica che, nel solco della tradizione costantiniana, riproponeva il tema delle chiese basilicali a tre navate con terminazione absidata.
Questa circostanza, perciò, ci porta a ritenere che appartenga all’XI secolo la utilizzazione anche nella nostra Cattedrale di quei moduli costruttivi che si possono ricavare studiando l’impianto planimetrico del monumento venafrano come di altre basiliche dell’epoca di Desiderio. Tale sistema costruttivo-proporzionale si deduce prendendo come misura base la lunghezza interna della facciata e costruendo su di essa un quadrato che va ad inglobare le prime tre coppie di colonne. Un secondo quadrato, contiguo al primo, ingloba invece le altre due file di colonne e la coppia di pilastri del transetto. Prolungando le diagonali del primo quadrato, fino a formare un altro quadrato che abbia una superficie esattamente doppia di quello iniziale e che abbia i lati posti a 45 gradi rispetto all’asse della chiesa, si otterrà la lunghezza complessiva dell’interno, dal fondo fino alla parte centrale dell’abside.
Ma se molto si è definitivamente perso durante le opere di restauro ministeriale, d’altra parte si sono pure scoperte importanti testimonianze che, sebbene frammentarie, ci permettono di intuire come si presentava ancora la Chiesa Cattedrale intorno alla metà del quattrocento, quando sostanzialmente ripeteva l’impianto dell’XI secolo. I tre portali della facciata introducevano ad altrettante navate separate tra loro da due file di colonne circolari. Immediatamente a sinistra, appena passato l’ingresso principale, in posizione canonica era (come è adesso) collocato il campanile quadrato. Gli ultimi restauri avrebbero dovuto restituire i caratteri della chiesa desideriana, ma in realtà, come abbiamo visto, hanno solo restituito, in linea di massima, la spazialità interna che genericamente possiamo definire romanica e che, nonostante le nostre critiche, comunque conserva un certo fascino. Da alcune foto, fortunatamente effettuate durante i restauri, sappiamo che gli archi di collegamento tra le colonne (anche se i conci sono stati sostituiti in sede di ripristino) avevano l’andamento a cuspide per un probabile rifacimento che, come vedremo più avanti, dovrebbe essere successivo al terremoto del 1456.
Sicuramente la forma dei capitelli, di cui si è persa ogni traccia anche per i rifacimenti barocchi, é stata ricostruita in maniera geometricamente anonima con il recente restauro. Possiamo, però, affermare con ragionevole sicurezza che le basi delle colonne siano rimaste quelle originali dell’XI secolo, anche se, come vedremo, gli archi ogivali sono da ritenere opera tarda del XV secolo.
Alcuni peduncoli nelle basi delle colonne si risolvono in forme vegetali, altri prendono forme che attingono alla tradizione simbolica medioevale. In una si vede rappresentata una insolita testa di un uomo che regge sulle spalle un cagnolino. In un’altra, invece, è la raffigurazione della testa di un demone caratterizzato da grandi corna e da zigomi sporgenti, che sono un prolungamento del naso.
Superate le ultime due colonne verso l’interno (che, come abbiamo visto, sono in opera latericia nella parte inferiore) mediante una scalinata di cui non si è recuperato alcun pezzo, si saliva al transetto impiantato su solidi pilastri quadrangolari e terminato con tre absidi semicircolari, ognuna in corrispondenza di una navata.
Questa particolare conformazione planimetrica contribuiva ad accentuare il senso longitudinale della chiesa sollecitando un’attrazione dal fondo verso il transetto ritmata dall’alternarsi delle semplici colonne circolari, ancora chiara reminiscenza romanica pur se sormontate da archi a sesto acuto di fattura gotica.
Tale particolare scelta di metodo costruttivo, dunque, va ricondotta alla presenza del vescovo Pietro di Ravenna, di formazione cassinense, cui possiamo attribuire, con una certa sicurezza, l’immagine a rilievo collocata sulla parete meridionale del campanile della Cattedrale e che viene popolarmente chiamata Marzo con sette cappotti.
Va osservato che lo schema compositivo di questa immagine dalla tipologia piuttosto insolita per quest’area geografica, si collega a criteri geometrici di origine pitagorica; infatti, il rettangolo entro cui si inserisce il vescovo risponde ad una precisa regola collegata a quel particolare triangolo rettangolo (che nel nostro caso si individua nel lato minore, nel lato maggiore e nella diagonale del rettangolo) in cui il cateto di base corrisponde a tre volte il modulo, il cateto di altezza a quattro volte il modulo e di conseguenza l’ipotenusa è pari a cinque volte il modulo. In altri termini il triangolo che è alla base della composizione è formato da lati costituiti da numeri interi che permettono, attraverso un calcolo semplicissimo, di verificare, applicando il teorema di Pitagora, che si tratta di un triangolo rettangolo; infatti, tenendo presente che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Nel nostro caso si verifica facilmente che (5 x 5) = (3 x 3) + (4 x 4).
Tale costruzione ci riporta pure alle motivazioni che avevano generato l’interesse di Pitagora per determinate figure geometriche, specialmente per i rapporti che esse avevano con le regole musicali. Nel caso che stiamo osservando, ci si trova di fronte ad un rapporto tra i due cateti, che in musica sarebbe un diatessaron o sesquitertia, per il fatto che la corda maggiore supera la lunghezza della minore per un terzo di quest’ultima, come ebbe modo di dimostrare Leon Battista Alberti.
Questa struttura geometrica si evidenzia non solo per la coincidenza del pastorale con la diagonale, ma pure nella ripartizione orizzontale, dove la testa è pari ad un modulo di base ed il braccio che regge il bastone si appoggia sulla linea mediana corrispondente a due unità. Il vescovo appare coperto da paramenti liturgici da cerimonia. E’ seduto in cattedra con le gambe divaricate ed in atteggiamento benedicente, anche se il braccio destro manca dal XVII secolo quando fu spezzato da una sassata. L’abbigliamento è costituito da un’ampia dalmatica con spacchi laterali, bordata inferiormente da una fascia a rilievo con una sequenza di semicerchi, quasi delle palmette, a due file sovrapposte, di ispirazione islamica. Al disopra di essa una pianeta copre il braccio reggente il pastorale e si sviluppa con sei pieghe a fasce parallele avvolgenti, a rilievo, così da farla sembrare costituita da altrettanti mantelli che si sovrappongono al settimo, che è la dalmatica. Sul polso sinistro è poggiato un manipolo e la mano si presenta inguantata. Al disotto della dalmatica si intravede la piegatura della tunica sulla quale si appoggiano le frange della stola e dalla quale spuntano i calzari. La testa è coperta da una mitra le cui infule si allargano sulle spalle.
La presenza delle infule, che sono documentate sicuramente nelle mitre dei codici dell’XI secolo (Si veda al proposito l’immagine di S. Isidoro insieme a S. Braulio in un codice dell’XI secolo della Staatsbibliothek di Monaco di Baviera) e degli exultet del secolo successivo, potrebbe far ritenere posteriore all’XI secolo l’epoca di esecuzione del ritratto, ma la sopravvivenza della forma conica del copricapo porta a ritenere più antica l’opera; infatti, solo dopo il XII secolo, la mitra assunse quella forma a due punte cuspidate che per lungo tempo l’ha caratterizzata. Quindi la contemporanea presenza della forma circolare e delle infule fanno collocare il bassorilievo tra la fine del XI secolo e l’inizio di quello successivo e, cioè, all’epoca di Pietro di Ravenna e non, come sosteneva il Valla, del vescovo Antonio Mancini.
Difficile, se non impossibile, dirimere la questione dei portali della basilica. L’arco acuto del portale centrale certamente induce a ritenere successiva all’epoca di Pietro di Ravenna la sua esecuzione, ma gli elementi figurativi potrebbero essere più antichi.
Questo portale centrale, tutto in pietra, presenta una lunetta ogivale con architrave monolitico. L’estradosso è ornato da una modanatura aggettante con gola a foglie d’acanto e listello a linea spezzata. Ai lati esterni dei piedritti, le due composizioni con immagini zoomorfe mostruose, ne costituiscono gli elementi più importanti. Le due figurazioni riprendono vagamente l’aspetto di leoni, ma si risolvono in forme irreali e mitiche, con una soluzione aggressiva che si scioglie epidermicamente nei motivi floreali dell’arco. Simboli della bestialità, esaltata sul piano figurativo dalla sottoposizione di figure vagamente umane trattenute dalle zampe anteriori, rappresentano l’azione peccaminosa. La loro collocazione ai lati del portale principale assolve la funzione di condizionamento psicologico per chi entra nella chiesa evidenziando che la porta è un vero e proprio filtro, elemento di fisica divisione tra il mondo esterno del peccato e quello sacro interno. Il fatto che tutta la facciata sia stata ricostruita sicuramente dopo il 1408 come si è potuto affermare con certezza per la presenza della pietra giubilare (di cui si parlerà più avanti) che, capovolta a lato del portale, riporta quella data, potrebbe far pensare ad una ricomposizione quattrocentesca di pezzi di un portale più antico.
Non è facile trovare un significato definitivamente convincente delle rappresentazioni del portale principale. Non possiamo neppure essere certi che l’originaria posizione fosse la stessa di quella attuale, tuttavia una serie di considerazioni sulla loro forma possono essere utili per tentare di capire cosa si nasconda dietro quelle forme che, in passato ed in maniera sicuramente superficiale, sono state definite semplicisticamente barbariche.
Partiamo dalla composizione di sinistra dove preminente è un’immagine mostruosa vagamente leonina. Singolare è la figura che viene trattenuta. Purtroppo la parte di sinistra per la sua menomazione non ci consente di capire cosa fosse rappresentato sullo spigolo. Certamente si tratta di una di quelle figure mostruose che caratterizzarono quella fase della plastica romanica che possiamo genericamente far risalire all’epoca normanna, e più precisamente per noi proprio all’epoca di Pietro di Ravenna. La parte inquietante della rappresentazione, se ci può essere consentito l’aggettivo, si vede in un personaggio apparentemente umano che presenta il proprio capo intimamente collegato, fino a fare con esso unico corpo, al posteriore di un altro personaggio che sembrerebbe chinato quasi ad angolo retto sotto le zampe del mostro leonino. Il suo corpo sembra svilupparsi in maniera mostruosa con altre braccia. Insomma si tratta di una strana composizione in cui la testa del personaggio che meglio si riconosce non è altro il prolungamento dell’orifizio anale dell’altro.
La testa del personaggio di destra è il prolungamento del posteriore del personaggio curvato di sinistra.
Immediatamente a destra un piccolo corpo nudo, dalla forma che assomiglia ad un ranocchio, sembra aggrapparsi alla muratura per sostenete il primo concio della cornice dell’arco. La testa di questa figura è scomparsa, però sembrerebbe che tipologicamente essa si possa inquadrare in quella serie di immagini di cosiddetti giocolieri che hanno la testa ed il busto completamente rigirato rispetto alla parte bassa del corpo.
Ugualmente complessa è la composizione di destra. Anche in questo caso la figura principale è un mostro leonino, ma le figure sottoposte sono un personaggio umano vestito di una tunica pieghettata e un animale che vagamente sembra essere un vitello o un ariete.
Sulla sinistra, il primo concio dell’arco si appoggia ad una figura strisciante verso il basso, vestita di tunica pieghettata e dalla testa cornuta, sulla quale un uomo nudo, dalle zampe di satiro, si mantiene a cavalcioni.
Il carattere della foglia di acanto sottostante il gruppo di sinistra potrebbe aiutarci a stabilire che la composizione sia contemporanea alle cornici dell’arco che, come abbiamo già detto, sicuramente è stato smontato e rimontato in maniera diversa dopo il terremoto del 1456.
L’ipotesi dello smontaggio e del diverso rimontaggio sarebbe confermato pure dalla particolare circostanza che i singoli conci non sempre combaciano perfettamente tra loro e che tra essi appaiono due protomi zoomorfe, peraltro di ottima fattura anche se di quella di destra non rimane quasi più nulla, ora posizionati simmetricamente rispetto all’asse verticale.
Più semplici i portali laterali esterni, comunque con arco a tutto sesto, dove non sono presenti le cornici fitomorfiche e le composizioni mostruose sono ridotte solo alle mensole di imposta delle modanature.
Il portale di destra è comunemente definito come “Porta Santa” per la tradizionale cerimonia giubilare attestata dalla lapide che il Vescovo Caracciolo fece inserire nell’archivolto in occasione della sua chiusura muraria nell’anno 1576.
HAEC SANCTA PORTA QVAE PRI
MO CLAVDEBATUR LIGNO NVNC
VERO CONSTRVITVR ET CRVCIS
ADHORNATVR, HORATIVS CA
RACCIOLVS D. G. EPS. VENAF. EAM
APERVIT ET CLAVSIT A. D. MDL
XXVI SVB GREG PP. XIII
Nel 1826, come ricorda l’altra lapide, la cerimonia fu ripetuta dal vescovo Gomez Cardosa che in quell’epoca reggeva contemporaneamente le diocesi di Venafro ed Isernia.
HANC PORTAM SANCTAM
QVAE AB HORATIO CARACCIOLO EPISC. VENAFRANO
APERTA ET CLAVSA FVIT ANNO MDLXXVI
ADEODATO GOMEZ CARDOSA EPISCOPVS
EODEM QVO ROMAE FIT SOLEMNE RITV
ADSTANTE MAGNA POPVLI MVLTITVDINE
APERVIT ITERVM CLAVSITQVE ANNO MDCCCXXVI
LEONE XII PONTIFICE MAXIMO
FRANCISCO I BORBONIO SICILIAR. REGE
Ugualmente all’epoca di Pietro di Ravenna possono farsi risalire le due figurazioni che costituiscono i peduncoli della cornice della lunetta.
Quello di sinistra si richiama all’episodio biblico del mostro marino che ingoia Giona. Una piccola disputa, apparentemente insignificante, sorgerebbe se si volesse stabilire se il mostro stia ingoiando Giona o lo stia espellendo. E’ noto che la figurazione di Giona mangiato dal mostro marino nella simbologia cristiana ha un significato estremamente importante perché la permanenza di tre giorni nel suo ventre fa associare la figurazione ai tre giorni della sepoltura di Cristo e la sua restituzione viene vista come preconizzazione della Resurrezione dalle tenebre e perciò dalla morte.
Nel nostro caso possiamo essere certi che si tratti del momento in cui Giona viene inghiottito per un particolare che si desume dalla descrizione biblica. Secondo la tradizione, infatti, Giona per il grande spavento perse immediatamente tutti i capelli e perciò quando venne espulso era completamente calvo. Nel nostro caso la presenza dei capelli chiarisce la circostanza.
Il peduncolo di destra sembrerebbe solo decorativo perché fa vedere un bimbo vestito di una tunica pieghettata a cavallo di un mostro dalla testa vagamente leonina, ma il fatto che la sua mano destra sia completamente e innaturalmente rigirata pone un interrogativo al quale non sappiamo dare risposta.
Assolutamente semplice, infine, è il portale di sinistra non solo nella linearità della cornice della lunetta priva di elementi decorativi, ma anche nei peduncoli costituiti da mensole decorate solo da una foglia di acanto.
L’Ughelli riferisce che l’ultima notizia di Pietro di Ravenna è relativa al 1080.
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