L’abate Josue e la basilica di S. Vincenzo Maggiore alle sorgenti del Volturno
Franco Valente
(da F. VALENTE, S. Vincenzo al Volturno – Architettura ed arte – Montecassino 1995)
Ludovico il Pio conferma beni territoriali a S. Vincenzo e all’abate Josue (Chronicon Vulturnense – Barb. lat. 2724 – B.A.V.)
Alla morte di Potone, avvenuta nel 783, subentrò alla guida del monastero, per quasi dieci anni, Paolo I, cui successe Giosue nel 792 . A quest’ultimo si deve una totale riorganizzazione urbanistica del monastero ed una serie di iniziative architettoniche che condizionarono l’impianto funzionale della città monastica fino al giorno della distruzione saracena. Prima di tutto va evidenziato che Giosue consolidò definitivamente i rapporti con la corte carolingia, anche per un suo diretto collegamento con la famiglia imperiale: sua sorella, infatti, fu la moglie di Ludovico il Pio, uno dei figli di Carlomagno e futuro imperatore d’Europa.
Soltanto quando lo scavo archeologico sarà terminato si avrà chiara la dimensione dell’intervento di Giosue, tuttavia quello che oggi si vede (1995) è sufficiente per comprendere le linee essenziali delle opere intraprese all’inizio del IX secolo in conseguenza di un evidente sovraffollamento del monastero.
Appare chiaro, infatti, che Giosue si sia reso conto che ormai l’organizzazione monastica di S. Vincenzo aveva assunto caratteri di assoluto rilievo, diventando un punto di riferimento di straordinaria importanza non solo nel quadro dell’organizzazione monastica peninsulare, ma anche nel complicato sistema politico di quell’epoca per le interferenze tra il potere civile e quello religioso.
L’abate certamente comprese che ormai era il momento di dare una connotazione urbanistica alle articolazioni monastiche che prima, in maniera spontanea, si erano aggregate all’antico nucleo di S. Vincenzo. Seguendo un criterio di pianificazione e di razionalizzazione degli spazi, sulla scorta delle indicazioni determinanti della Regola di S. Benedetto e condizionato dalle sopravvivenze delle strutture del vicus e della villa romana, che comunque costituivano il tessuto (oltre che fonte di materiale lapideo già lavorato) su cui, con rinnovate concezioni funzionali e spaziali, poteva adattarsi la cittadella monastica, diede inizio ad un’opera che porterà il complesso vulturnense a collocarsi tra i più importanti monasteri d’Europa.
L’Abate Josue dona la nuova basilica a S. Vincenzo di Saragozza
E’ significativa, a tal proposito, la lunga elencazione che il Chronicon fa delle doti personali di Giosue quando di lui esalta non solo le origini regali, ma anche le virtù morali e la cultura letteraria con lo scopo di evidenziare il suo ruolo determinante nella storia del monastero, quasi a sottolineare che le grandi innovazioni non erano una normale amministrazione del cenobio.
La cripta di S. Vincenzo Maggiore al momento della scoperta dall’equipe di Richard Hodges
E’ ovvio che anche la nuova impresa costruttiva si sarebbe dovuta inquadrare nella più vasta visione carolingia della Renovatio Romani Imperii e quindi anche la nuova chiesa, di cui aveva intrapreso la edificazione, avrebbe dovuto ispirarsi a uno dei modelli più significativi dell’architettura cristiana imperiale, quale di fatto era la chiesa costantiniana di S. Pietro a Roma, non solo utilizzando materiale di spoglio di preesistenti monumenti romani, ma anche rinnovando una iconografia consolidata dell’architettura.
L’abate Josue (?) nella cripta semianulare di S. Vincenzo Maggiore
Il basamento di un preesistente edificio repubblicano, posizionato peraltro a diretto contatto con la pianura di Rocchetta, costituì il pretesto decisivo per impiantare la nuova grandiosa chiesa dedicata a S. Vincenzo. Una grande scalinata, preceduta da un chiostro che racchiudeva lo spazio esistente tra il basamento del tempio e l’argine del Volturno, permetteva di salire al sagrato della chiesa, limitato da due torri campanarie quadrangolari. Un secondo porticato, il paradysus, di impianto pressoché quadrato anticipava la facciata della basilica che recava in alto una grande scritta, il cui testo è riportato dal Chronicon, che voleva ricordare ai posteri ed ai contemporanei il grande sforzo compiuto da Giosue nel ristrutturare l’intera città monastica con un progetto unitario ed organico: QUAEQUE VIDES HOSPES PENDENCIA CELSA VEL IMA VIR DOMINI IOSUE STRUXIT CUM FRATRIBUS UNA (Ospite, qualunque edificio tu veda, dal più alto al più basso, sappi che è stato costruito da Giosuè insieme ai suoi confratelli).
Il Chronicon riporta pure le misure: …erat enim ipsa ecclesia in longitudine habens passus triginta sex, et in latitudine cum ipsas porticus passus sedecim, in altitudine passus XII usque ad trabes…
Le tre misure riportate, 36 passi in lunghezza, 16 in larghezza e 12 in altezza, ci riportano con buona approssimazione a rettangoli in cui, assunta come unitaria l’altezza dell’edificio (circa 12 passi) si ottiene che la facciata era definita da un rettangolo radice quadrata di 2 e che la lunghezza della chiesa, assunta come unitaria la sua larghezza (circa 16 passi) era individuata da un rettangolo radice quadrata di 5, dimostrando che nella elaborazione progettuale si adottarono moduli proporzionali che si ritrovano in altri edifici benedettini del territorio vulturnense.
La chiesa era a tre navate separate da due file di dodici colonne per parte che, il giorno dell’inaugurazione, furono ornate singolarmente da pallii pendenti. Quel giorno erano presenti, secondo il cronista, lo stesso Ludovico e papa Pasquale I , nonché un gran numero di vescovi, cardinali, chierici ed una moltitudine di persone utriusque condicionis et sexus.
Il Chronicon Vulturnense fissa l’avvenimento nell’808, ma se si tiene conto che Pasquale I fu papa dal gennaio 817 al febbraio 824, che Ludovico il Pio divenne imperatore nell’814 e che Giosue morì nell’817, deve ritenersi che l’inaugurazione sia avvenuta nei primi dell’817 , pur rimanendo dubbia la presenza dell’imperatore che non risulta essere sceso in Italia in quell’anno.
Qualche anno dopo lo stesso papa dava inizio alla costruzione della basilica romana di S. Prassede, dove furono poi deposte le sue spoglie, ripetendo il modello architettonico di S. Vincenzo in maniera pedissequa, sia nell’impianto planimetrico generale che nella realizzazione della cripta semianulare; il tutto, comunque, in dimensioni inferiori rispetto a quelle vulturnensi.
Per la costruzione della chiesa di S. Vincenzo fu adoperato in massima parte materiale proveniente da Capua (prevalentemente colonne di granito egiziano rosa e nero) ed appartenuto a preesistenti edifici romani. Tutte le pareti interne furono affrescate, come risulta oggi confermato dai saggi archeologici.
L’impianto architettonico risente in maniera diretta della impostazione costantiniana della basilica vaticana di S. Pietro che, per tutta la cultura carolingia (ed anche successivamente nella definizione delle chiese desideriane dell’XI secolo ), continuò ad essere un riferimento costante pur nella varietà delle dimensioni e del numero delle navate. La sua impostazione spaziale basata su una rigorosa assialità longitudinale, con la grande navata centrale e le due laterali (porticus) separate da colonne, priva di transetto e comunque anticipata da un paradysus, cioè un atrio con le colonne che probabilmente si sviluppavano sull’intero perimetro, pone nuovamente la questione della originalità dell’architettura carolingia rispetto alle preesistenti architetture romane che, nel nostro caso, sembrerebbe dimostrata più sul piano strettamente politico che su quello specificamente architettonico.
La scoperta (1993-1994) della grande cripta semianulare sottostante la parte presbiteriale (adytum) dell’abside centrale intanto conferma la straordinaria importanza che la basilica vulturnense dovette avere per l’abate Giosue e per i suoi immediati successori. La sequenza delle pitture decorative e quello che sopravvive delle rappresentazioni figurative evidenziano la funzione che aveva, nell’ambito liturgico monastico, il complicato corridoio che immetteva alla piccola cella, a forma di croce latina, dove erano sistemati i reliquiari, forse, dei Santi fondatori del monastero di S. Vincenzo o addirittura dello stesso martire di Saragozza.
Un percorso che non ha eguali negli altri esempi adottati nelle architetture, più o meno coeve, di Petersberg presso Fulda, di Saint-Médard a Soissons, o di quelle tutte successive di Saint-Germain ad Auxerre, della basilica di Vreden, dell’abbazia di Werden, del duomo di Hildesheim, pur se l’andamento semianulare è un elemento caratteristico riutilizzato in molte architetture imperiali.
Nella cripta di S. Vincenzo Maggiore, più che in altre parti, sembra portata alla esasperazione la ricerca di uno spazio labirintico, di memoria catacombale, finalizzato a proteggere con una serie di involucri murari la parte più sacra dell’edificio, quasi che esso, alla fine, nel suo complesso, assuma la funzione di un reliquiario in cui solo pochi hanno il privilegio di accedere fisicamente.
Il particolare tipo della decorazione, che non ha eguali in tutto il mondo carolingio, sembra costruito in maniera da apparire come una superficie tombale ricca di diamanti, marmi policromi, tarsie multicolori, rosoni, pannelli di cubi in assonometria, che in qualche modo possano contribuire ad evidenziare il carattere prezioso dell’ambiente, un vero e proprio paradiso sotterraneo, degno di accogliere le spoglie terrene dei Santi.
Straordinarie in questo contesto sono le immagini a mezzo busto degli abati, uno giovane e l’altro anziano, sistemate nella parte concava di piccole nicchie che fronteggiano lo spazio sottostante la fenestella sotto la quale era situata la tomba del santo ricoperta da un drappo di seta. Le posizioni frontali dei visi, a grandezza naturale, inseriti in un nimbo quadrato ad attestare la loro esistenza in vita al momento della esecuzione pittorica, si arricchiscono di potenza espressiva per l’imposizione delle mani che si presentano con il palmo rivolto verso le reliquie.
Immagini che, comunque, richiamano i diversificati significati che, anche nell’ambito vulturnense, venivano attribuiti alla rappresentazione della mano, a seconda del contesto in cui essa veniva dipinta, potendo rappresentare, come si vedrà nella cripta di Epifanio, un gesto di imperio (Maria madre di Dio nella sfera celeste), un segno di spavento (Maria che riceve l’annunzio dall’Angelo Gabriele), la Verità rivelata (Cristo Pantocratore con il libro aperto), Dio Eterno (La luce che diventa mano) oppure Dio Infinito (il simbolo numerico dell’infinito che si lega ad una mano al centro di una croce tombale). In questo caso la raffigurazione delle palme rivolte verso chi guarda si ricollega alle immagini catacombali ed esprimono il momento della preghiera che scaturisce spontanea dinanzi alle reliquie, creando un rapporto fisico tra l’immagine parietale ed i reliquiarii posizionati nella cripta.
Il sepolcreto nel paradisus della basilica
Sul piano strettamente simbolico, il nimbo quadrato che contorna il capo di ogni figura starebbe a significare che il personaggio rappresentato era vivente al momento della esecuzione della pittura, ma ciò implicherebbe una illogica presenza contemporanea di più abati. In effetti quelle figure, probabilmente, non debbono riferirsi ad uno o più abati in particolare, ma genericamente a tutti gli abati che si sarebbero succeduti nella guida del monastero o che, comunque, hanno partecipato fisicamente all’opera di costruzione di S. Vincenzo.
Anche se un esame epidermico dell’impianto della cripta porta a ritrovare nello sviluppo planimetrico una possibilità di uso processionale dello spazio interno, alla fine ci si accorge che si tratta piuttosto di un itinerario liturgico sotterraneo che trova evidenti riferimenti simbolici nell’architettura delle catacombe romane, escludendo certamente una sua utilizzazione generalizzata. Ciò che appare singolare nella strutturazione architettonica della cripta della basilica di Giosue è l’assoluta originalità dell’impostazione spaziale rispetto agli altri esempi di epoca carolingia e che ci induce ad un ragionamento più acuto rispetto al concetto di centralità nell’architettura cristiana dell’alto medioevo .
In realtà bisogna tener conto che, quando si entra in una chiesa completata architettonicamente, si è portati a compiere un percorso fisico che fa ritenere punto di arrivo la parte più recondita dell’edificio e conseguentemente se ne analizzano i momenti progressivi dell’avvicinamento. Nel caso specifico della basilica di Giosue, la situazione archeologica, con l’assenza delle parti strutturali verticali, permette di considerare la chiesa come se oggi si fosse nella prima fase costruttiva.
Questa circostanza mette chiaramente in evidenza che il punto di partenza della costruzione, che simbolicamente è il punto centrale di tutta la basilica, sia costituito proprio dal luogo cruciforme in cui sono riposte le reliquie. La sua centralità (nel suo significato medioevale) rispetto al resto della costruzione viene esaltata dalla particolare forma della pianta del piccolo ambiente che le accoglie.
Il collegamento con l’esterno, però, non può essere individuato nel percorso che bisognava compiere per raggiungere la parte più interna, quanto piuttosto nella cateratta che metteva in rapporto l’ambiente sotterraneo con il soprastante altare, protetto ed evidenziato dalla complessa architettura del ciborio, oggi scomparso benché documentato dal Chronicon, che era il punto di riferimento fisico delle grandi navate riservate ai monaci o, più genericamente, ai fedeli. Nei tempi successivi ed in altri luoghi, quando il numero degli altari nelle chiese si è moltiplicato, questa concezione così complessa, si è andata sintetizzando con il semplice inserimento di una piccola urna di reliquie sotto il piano della mensa.
L’esempio di S. Vincenzo, che comunque non era originale, in seguito non sembra sia stato imitato in maniera pedissequa, molto probabilmente anche per necessità di ordine pratico; infatti, nelle cripte successive delle altre basiliche dell’impero, pur conservandosi la peculiarità del percorso anulare, vi è la tendenza a dilatare lo spazio nella sua parte centrale con la creazione di una vera e propria cappella sotterranea, utilizzabile contemporaneamente da più persone. Comunque la cripta di Giosue, anche nell’ambito dello stesso monastero vulturnense, aveva una funzione sostanzialmente analoga a quella di Epifanio, che, come vedremo, ha una costruzione architettonica ed una impostazione planimetrica in cui appare determinante la necessità di esaltare il momento particolare dell’anastasi, dell’attesa del congiungimento dell’anima al corpo, in una visione tipicamente apocalittica.
Caro Franco, ancora una lectio magistralis illuminante e straordinaria. I tuoi occhi vedono cose che noi mortali non riusciamo a vedere! quando pubblicherai le tue foto dei carri!? Io, in verità, più che le foto mi aspetto un tuo commento intelligente e per certi versi non scontato, proprio perchè i tuoi occhi vedono cose che altri, neppure noi sammartinesi, su questa nostra tradizione, probabilmente, non vediamo! Un saluto
Le indicazioni metriche della chiesa di S. Vincenzo Maggiore, ancora una volta forniscono le motivazioni progettuali degli edifici religiosi antichi. Nella planimetria esse riflettono le geometrie incorruttibili del cosmo e determinano la latitudine del posto (41° 38′), la datazione dell’opera tramite la precessione degli equinozi (angolo rispetto alla Polare 38° 39′), e poi la croce formata dalle due diagonali del rettangolo di pianta che simbolicamente individuano, oltre al cristologico “chi”, il Creatore della luce attraverso l’apertura angolare pari all’angolo dell’eclittica (23°30′). La non ortogonalità tra le murature è dovuta alla necessità, sempre di ordine simbolico, di formare un angolo, rispetto alla direzione nord, pari a metà angolo dell’eclittica. La rientranza sulle murature laterali determina il “quadrato lungo” iniziatico, rettangolo formato da due quadrati, risultante anche in molte chiese molisane. Poi, sulla facciata, credo sia ipotizzabile la costruzione del triangolo egizio (3-4-5), con base 4. Ho voluto accennare queste brevi considerazioni, non per sostituirmi a chi ha sudato e studiato per questa chiesa e per tutto S. Vincenzo, ma per riflettere sulla complessa semplicità che governava gli edifici religiosi, sempre e comunque relazionati al cosmo, anzi al Creatore del cosmo. Grazie a Franco Valente per aver dato, come sempre, spunti per discussioni interessanti.
bellissimo sito