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Gennaro Morra. San Nicandro tra storia e tradizione. (Dall’Almanacco del Molise 1988)

By 14 Giugno 2015 No Comments

Gennaro Morra, il massimo storico venafrano, nel 1987 preparò un piccolo saggio da pubblicare sull’Almanacco del Molise del 1988 curato da Enzo Nocera.
Da quell’epoca a oggi nessun nuovo contributo è stato dato alla conoscenza dei documenti storici sui quali si può correttamente costruire la storia dei santi protettori della città di Venafro, sicché il saggio di Morra rimane insuperato.

GennaroMorra

San Nicandro tra storia e tradizione
Gennaro Morra

Nell’affrontare una ricerca agiografica con criteri di sana critica storica, specialmente se si tratti di Santi la cui esistenza si fa risalire ad epoca premedievale e il cui culto popolare deriva da antiche tradizioni locali, è d’obbligo prescindere da preconcetti e fanatismi quasi sempre fondati su di un malinteso patriottismo cittadino.

L’ammonimento vale nel momento in cui ci accingiamo ad indagare sulle origini e sul martirio di Nicandro, da secoli venerato come Santo protettore della nostra Città, la cui esistenza riposa più sulla tradizione che sulla storia.
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Teodoro D’Errico (sec. XVI). Nicandro e Marciano martiri

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La testimonianza più remota del martirio di questo campione della Fede, il cui nome evidenzia la sua origine greco-orientale, l’abbiamo, sia pure indirettamente, nel Breviarium Syriacum, redatto a Odessa (Mesopotania) nel novembre del 411, ma costituito dalla traduzione in siriaco del Martirologio di Nicomedia, compilato tra il 360 e il 411 (Breviarium Syriacum, ed. B. MARIANI, Roma ecc. 1956, pp. 10 sgg.), cioè a meno di un secolo dell’anno del martirio, che viene assegnato al 303, in occasione della persecuzione che il sanguinario Galerio Massimiano aveva ottenuto dall’ imperatore Diocleziano con il celebre editto del 23 febbraio 302.
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Alessandro Caetani (sec. XX). Il martirio dei santi. Porte di bronzo di S. Nicandro

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Non sono mancati autori che hanno ritenuto di assegnare il martirio di S. Nicandro e Marciano all’anno 287, in occasione della persecuzione militare, diretta esclusivamente contro quei soldati dell’Impero che erano cristiani. Ma in prevalenza si accetta la datazione del Baronio che sembra la più attendibile.

Il citato Breviarium, infatti, riporta che il 5 giugno, senza precisarne l’anno, nella Mesia e precisamente nella città di Tomi, l’attuale Costanza, furono suppliziati Marciano ed altri (“Et in quinta Hziran in civitate Tomis, Marcianus et alii confessores tres“, op. cit., p. 39. ), tra i quali altri, stando a successive attestazioni è da comprendere Nicandro (Cfr. F. LANZONI, I, Le Diocesi d’Italia dalle origini ai principi del Sec. VII, Faenza 1927, p. 176.).

Un’antica Passio Nicandri et Martiani infatti li dà entrambi per martirizzati il 17 giugno, senza indicare l’anno e la località, mentre il Martirologio Gerolimiano indica questa in Dorostoro, città anch’ essa della Mesia; sulle cui frontiere i Romani stavano difendendo le terre dell’Impero dai Loti, Sarmati, Dari e altri popoli barbari incursori delle provincie assoggettate a Roma.

Queste sono le fonti orientali e le più remote alle quali, in epoche successive si aggiungeranno quelle occidentali, tendenti a meglio radicare il culto dei due santi che la diaspora dei monaci bizantini aveva trasferiti in Italia assieme ai reliquari.

Tali sono i codici E e D del Gerolimiano che attribuiscono a Capua i due martiri, una Passio che indica come luoghi di sepoltura Venafro per Nicandro ed Atina per Marciano ed altra che li dà per sepolti entrambi a Venafro. Infine una terza, composta nel XII secolo dal monaco cassinese Pietro Diacono, il quale, sotto il nome di Adenolfo vescovo di Capua, distingue un Nicandro morto in Atina nel 273 e un altro a Dorostoro nel 302 (G. DE MIRANDA Il culto dei Santi martiri Nicando e Marciano nella Campania e le loro memorie nella Chiesa di S.ta Patrizia in Napoli, Ivi 1937, p. 8.).
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Alessandro Caetani (sec. XX). Busto di S. Nicandro

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Afferma il Lanzoni: “Queste diverse versioni evidentemente sono l’eco di lotte medioevali tra città vicine per il possesso delle sacre reliquie dei due santi”, ma in particolare corrispondono ad una esigenza, propria dell’alto Medioevo, quando le città gareggiavano nel sottomettersi alla tutela apotropaica di santi eccezionali (N. CILENTO, Città e società cittadina nell’Italia meridionale del Medioevo in Aristocrazia cittadina e ceti popolari nel tardo Medioevo, Quaderno n. 13 degli Annali dell’Istituto storico italogermanico di Trento, Bologna 1982, p. 210).

I casi citati sono esemplificazioni di un’abbondante fioritura di Atti, Passioni, Calendari e Martirologi tardivi che nei secoli X e XI intesero accreditare a località della Campania numerosi santi (se ne contano circa 150) presi dai Martirologi greci o orientali. In essi quasi mai manca il nome di Nicandro, sol perché da tempo immemorabile se ne venerava il martirio nelle località italiane, dove si custodivano le sue reliquie. Ma troppo spesso questi documenti – in gran parte raccolti negli Acta Bollandiana – sono guide malsicure e contraddittorie, tese a corroborare la fede popolare sollecitando l’orgoglio cittadino delle popolazioni, sensibili al riconoscimento di patrie e luoghi di martirio che fossero loro propri, “presentando come martiri morti e sepolti in Italia, martiri semplicemente venerati nella penisola o di cui le chiese d’italia custodivano reliquie, ordinariamente sanctuaria. Nicandro e Marciano, martiri orientali”, afferma il Lanzoni, e altri martiri estranei all’Italia, nelle Gesta furono trasformati in martiri Italiani” (F. LANZONI, op. cit., p. 66).
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Barbato da Sulmona (1340). Testa di S. Nicandro (Trafugata)

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Si sa, però, che i martiri delle regioni danubiane ebbero culto in Italia dalla fine del IV secolo e, per ciò che riguarda Nicandro e Marciano, li troviamo onorati a Ravenna e Roma (DUCHESNE, Le “Liber Pontificalis”, I, p. 255 sg.; G. LORETA, Cenno storico sulla chiesa parrocchiale dei SS. MM. Nicandro e Marciano in Ravenna, Bologna 1923, p. 11 sgg.), nonché a Napoli, Capua e in altre località della Campania e della Puglia. Che tale culto fosse importato non vi sono dubbi, dovendo dare per certo che l’esecuzione del legionario Nicandro si ebbe nella provincia romana della Mesia, dove furono frequenti i casi di soldati convertiti alla religione cristiana, i quali deponevano le armi per non macchiarsi di sangue fraterno. Essi furono perciò immessi nel culto locale e venerati fino a quando i monaci basiliani di rito greco, nella prima metà dell’VIII secolo, sotto l’imperatore Leone III Isaurico, coinvolti nella lotta iconoclastica, non furono costretti ad emigrare nelle località dell ‘Italia meridionale, dove si trasferirono con le loro reliquie e con le loro icone, per sfuggire alle leggi isauriche che condannavano il culto delle immagini e dove già vivevano ristrette colonie greche o armene, lasciate dalle armate bizantine di Narsete, durante e dopo la guerra gotico-bizantina (535 – 553). Ovvero può ipotizzarsi che ancor prima della diaspora iconoclostica, qualche comunità monastica basiliana si sia trasferita a Venafro allorché la città, prima che fosse occupata dai Longobardi, era sotto il dominio dei Bizantini. Costoro, infatti (e in Calabria se ne hanno esempi evidenti) come fecero i Franchi e gli stessi Longobardi, videro nei monasteri occasione di espansione politica, quando questi non rappresentarono anche punti di strategia militare.
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S. Nicandro com’era negli anni 60

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Correnti migratorie dall’Oriente in Italia si erano avute anche in occasione dell’evasione degli Avari nel Peloponneso nel VI secolo. L’anonimo autore della Cronaca di Monemvasia (DUJCEV, Studi bizantini e neoellenici, 12, Palermo 1976, p. 12) infatti assegna al 588 l’arrivo di numerosi profughi sulla costa ionica, di dove poi si irradiarono per il resto della penisola. Analogo fenomeno, inoltre, si ebbe durante l’espansione islamica nel Levante e nelle isole Egee.

Tutti episodi che giustificano a Venafro la presenza di un’etnia greca attestata anche da intitolazioni di chiese quali S. Giovanni de Graecis, tuttora esistente, e S. Nicola de Graecis, abbandonata nel secolo XV perché diruta (BILIOTECA COMUNALE DI VENAFRO, Protocollo del 1587 del Not. G.D. FULGIONE, f. 90).

Possiamo perciò attestarci ai secoli tra il VI e l’VIII come epoca nella quale il corpo del martire Nicandro trovò definitivo riposo a Venafro, dove non v’è dubbio che debba esservi stato trasferito dai monaci Basiliani, per avere essi officiata in Venafro la chiesa di S. Nicandro e l’abbazia di S. Croce fino al volgere del secolo XV (G. COTUGNO, Memorie Istoriche di Venafro, Napoli 1824, p. 122 sg.).

Per certo è attestata la sua presenza al tempo del duca beneventano Arechi II (758-778) il quale, quando fece costruire la nuova Benevento e vi eresse la monumentale chiesa di S. Sofia, arricchendola di reliquie sottratte un po’ dovunque, prelevò proprio da Venafro un braccio del Santo ed altre ossa dello stesso le trasferì nella chiesa di Montevergine (Acta Sanctorum Junii, ed. G. HENSCHENIO, III, Antuerpie 1701, p. 270).

Del resto il sarcofaco nel quale attualmente sono custodite, formato da una cassa senza alcuna decorazione esterna, ricavata da un antico unico monolito, vale a confortarci nella datazione. Sulla integrità del corpo del Santo c’è molto da dubitare se si considera con quanta larghezza furono arricchiti i reliquari di tante chiese dell’Italia meridionale.

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Oltre al citato caso attribuito al Duca beneventano, nella Cronaca di Pietro Diacono leggiamo che nel 1023 alcune ossa furono depositate nell’ altare di S. Benedetto ed in quello di S. Nicola nell’ Abbazia di Montecassino ed altre ancora nell’ altare di S. Michele il 10 settembre del 1075, allorché fu consacrata dal vescovo Giovanni di Sora (PIETRO DIACONO, Chronica Monasterii Casinensis, ed. H. HOFFMANN, Hannover 1980, pp. 400, 401, 409 e 410. Se ne conoscono ancora a Napoli, nella chiesa di S. Patrizia (G. DE MIRANDA, op. cit., p. 23), a Isernia, custodite in un’artistica urna (F. VALENTE, Reliquiari trecenteschi a Venafro, Isernia e S. Pietro Avellana in Almanacco del Molise 1978, p. 385 sgg. ) e a Capua.

Sul sepolcro del martire, in data non precisabile, ma certamente prima del 955, i monaci basiliani eressero la chiesa a lui intitolata alla periferia della città. In detto anno, infatti, essa è menzionata nel Chronicon Volturnense, a proposito di una donazione di beni fatta da alcuni nobili longobardi all’abate Giosué di S. Vincenzo al Volturno (Chronicon Vulturnense, ed. V. FEDERICI, II, Istituto Storico Italiano, Roma 1925, p. 69).

E da quell’ epoca le generazioni successive si sono avvicendate a venerare i resti mortali di un personaggio che considerano proprio, perché con la sua presenza ideale ha santificato quella terra ed ha eletto a propri fratelli tutti i venafrani.

S.Nicandro.CroceBUONA

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